Polemiche nel 90° della Vittoria
90° Anniversario della VITTORIA !
Una vittoria da rispettare
di Mario Cervi
29 ottobre 2008
La polemica sulle celebrazioni del 4 Novembre è faziosa,
sterile, vecchia e a mio avviso anche sciocca. L’ha innescata il direttore di
Liberazione, Piero Sansonetti, con un editoriale in cui qualificava la Grande
Guerra come «un avvenimento orribile, feroce, sanguinosissimo», un’inutile
strage da addebitare alle «classi dirigenti europee». Le quali aprirono le
porte al fascismo e al nazismo. Niente cerimonie all’Altare della Patria,
dunque, niente discorsi, niente alzabandiera.
Di rincalzo a Sansonetti sono arrivati – le idee peggiori
dilagano – alcuni insegnanti di Villafranca Padovana, ostili alla
commemorazione perché potrebbe offendere le minoranze etniche; ed è anche
arrivata, di nuovo sulle pagine di Liberazione, Lidia Menapace all’insegna
della parola d’ordine «né vinti né vincitori». Già il foglio – dichiaratamente
comunista – da cui viene la predica lascia piuttosto perplessi. Da quella parte
nessuno ha mai chiesto il cambio di nome delle innumerevoli vie e piazze
dedicate all’Armata Rossa e a Stalingrado. L’Armata Rossa come la Wehrmacht?
Stalingrado pari e patta, né vinti né vincitori? Non mi pare che queste siano
state le intenzioni di chi ha voluto solennemente ricordare, nella
toponomastica italiana, le vittorie dell’Urss. Quelle sono degne di memoria, e
il 4 Novembre, conclusione d’una guerra che è stata veramente di popolo – e il
popolo ci ha lasciato seicentomila caduti – deve invece trascorrere nel
silenzio, o al più essere allietato – si fa per dire – da logore manfrine
pacifiste?
Spero di non essere frainteso. So bene – lo sa chiunque
s’interessi un po’ di storia – quanto orrore, quanta incapacità dei comandi,
quanto sangue e quanta sofferenza dei soldati vi siano stati in quella vicenda.
Non mi sogno nemmeno di riabilitare i generali macellai (ma lo erano quasi
tutti in tutti gli eserciti, non solo Cadorna teorico dell’«attacco frontale».
Comunque Cadorna non l’avrei mai candidato a una targa stradale).
Ma il conoscere gli aspetti crudeli e meschini di quella
guerra non può far dimenticare ciò che essa rappresentò e tuttora rappresenta
nell’immaginario nazionale, quale punto di riferimento indispensabile essa
costituisca quando si vuol fare appello all’identità italiana. Non è un caso
che solo a quella del ’15-’18 sia toccato e sia rimasto l’appellativo di
«Grande Guerra». Grande per il numero degli italiani che vi si immolarono, ma
grande anche per i contenuti che ebbe.
Lo so, l’Italia approdò all’intervento dopo giri di valzer,
e l’enfasi dannunziana nelle «radiose giornate» di maggio ebbe qualcosa di
falso. Ma l’anelito al compimento dell’Unità con l’acquisizione delle città
italiane che si chiamano Trento e Trieste aveva un’eco potente in tantissimi
cuori. Anche cuori di sinceri democratici che successivamente rifiutarono
d’intrupparsi nel fascismo. Sansonetti lascia intendere che la retorica gli
ripugna. Peccato, ripeto, che gli ripugni la retorica spesa in onore di glorie
militari italiane, e non la retorica spesa per glorie altrui.
Il ritorno dei riti civili che ci rammentano le tappe d’una
lunga storia è stato fortemente voluto dal presidente Ciampi. Gliene va reso
merito anche se qualche volta – non ho mancato di rimarcarlo – ha secondo me
ecceduto. Così nel filone resistenziale, e perciò politicamente corretto, ha
voluto interpretare l’8 settembre 1943 come un momento di rinascita del Paese,
dopo il ventennio mussoliniano e la disastrosa sconfitta. No, l’8 settembre
resta la data d’una vergogna nazionale, del «tutti a casa» appena un po’
riscattato da singoli episodi d’eroismo. Ma la Grande Guerra deve essere
rispettata, è nostra, nonostante le eccessive grancasse trionfalistiche che
possono soltanto aver disturbato l’eterno sonno dei morti.
Oziosa mi sembra anche la discussione sull’Inno di Mameli e
sulla canzone del Piave: il cui verso «non passa lo straniero» sarebbe
addirittura – vero maestri e maestre di Villafranca Padovana? – intriso di
xenofobia. Che baggianata. A voler essere pignoli altro dovrebbe essere
contestato alla celeberrima canzone: i fanti che il 24 maggio 1915 marciavano
«per raggiunger la frontiera, per far contro il nemico una barriera». In realtà
la guerra all’Austria l’avevamo dichiarata noi, non per fare barriere ma per
conquistare terre irredente. Ma la poetica di queste canzoni che riescono a
riassumere il patriottismo ingenuo e la malinconia struggente degli umili
travolti da fatti tanto più grandi di loro, prescinde dall’esattezza storica.
È, quella poetica, un omaggio al sacrificio dei combattenti, ciascuno i suoi.
Uguali nel rispetto i vincitori e i vinti. Ma la «Grande Guerra» l’Italia l’ha
vinta.
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