giovedì 10 ottobre 2013

La discesa in campo dell’Italia (La scelta di VE III)



Come si arriva al 24 maggio 1915
La discesa in campo dell’Italia (La scelta di VE III)

Fatta la scelta corretta (momentaneamente) di essere neutrali, perché l’Italia alla fine scende in campo ?
Essere oggi politicamente corretti, vuol dire ribadire alla noia, urlando se è necessario che l’Italia doveva e poteva restare fuori dal conflitto.
Dirlo oggi è facilissimo, farlo nel 1914/15 era difficile, anzi nelle nostre condizioni, era pressoché impossibile.
Occorre ricordare che l’Italia, era un Paese con una popolazione numerosa ed in grande sviluppo demografico, che già stentava a trovare sussistenza. Sono di allora infatti le grosse masse di emigranti che prendono il mare per cercar fortuna altrove. L’Italia inoltre, come abbiamo visto, viveva un isolamento internazionale (politico) ma dipendeva dall’estero per quanto riguardava i rifornimenti alimentari e l’energia (economia) soprattutto dalle potenze occidentali dell’Intesa. Di fatto il nostro Paese, veniva tollerato all’estero, perché membro di un’alleanza militare oppure perché eravamo dei grossi clienti. 
Ecco quindi che SM il Re Vittorio Emanuele III - che la storiografia ufficiale dovrà prima o poi rivalutare nella sua grandezza – compresa questa situazione, cala il primo degli assi, che in 46 anni Regno, lo caratterizzeranno, e che favoriranno la sopravvivenza stessa dell’Italia nonostante tutto e nonostante tutti.


Egli infatti, con la sua intelligenza intuisce che pur non essendo “obbligato” ad entrare in guerra, lo deve fare per garantire al suo paese un processo di sviluppo, economico e sociale nel futuro, ma soprattutto di poterlo fare questo sviluppo, …in piena autonomia e sovranità.

Purtroppo ha di fronte una classe politica e dirigente abbastanza miope che vede nelle piccole commesse militari per l’estero, una facile fonte di guadagno immediata. L’opinione pubblica poi - vessata da politicanti ancora più miopi - risulta in maggioranza contraria, e si trova divisa da grossi problemi sociali.

I contrari alla guerra, vorrebbero aspettare la fine della stessa per poi aggirarsi come avvoltoi senza onore sui tavoli della pace per raccogliere qualche briciola. Giolitti ad esempio è tra questi, contro l’intervento.
Va detto che la situazione internazionale con lo scatenarsi della guerra nel 1914, non era certo migliorata per l’Italia, anzi i rifornimenti di cereali e di carbone sono parecchio rallentati dalle necessità dei Paesi già in conflitto tra loro, e sarebbe andata anche peggio una volta che il conflitto fosse finito. Chiunque fosse uscito vittorioso dal duello infatti, non avrebbe più avuto per molto tempo, un contrappeso internazionale, e avrebbe potuto chiedere all’Italia qualsiasi cosa, perché l’Italia rimasta sola nel suo isolamento, sarebbe stata senza possibilità alcuna di potersi difendere. Le colonie sarebbero state la prima vittima, ma poi le isole dell’Egeo, le concessioni in Cina e via dicendo. Era sicuramente possibile un processo di erosione simile a quello che aveva interessato la Spagna nell’800, e stava interessando l’Impero Ottomano tra la fine dell’800 e inizio del ‘900.

Per convincere i politici e l’opinione pubblica ad intervenire quindi, il Re, ha dalla sua l’ancora diffusissimo sentimento anti tedesco risorgimentale. Ha buon “gioco” su di esso, grazie al fenomeno fortissimo dell’irredentismo. L’obiettivo era di rompere l’isolamento internazionale di cui l’Italia è vittima, e completare in un colpo solo l’unità nazionale. Vuol però dire entrare in guerra contro gli ex alleati in favore delle potenze dell’Intesa.

Passa al contropiede quindi, per garantire all’Italia, l’aria stessa per respirare.
È un capolavoro di politica estera in base alle prerogative concesseGli dall’Articolo 5 dello Sta-tuto Albertino.
Art. 5. - Al Re solo appartiene il potere esecutivo. Egli è il Capo Supremo dello Stato: comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra: fa i trattati di pace, d'al-leanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere tosto che l'interesse e la sicurezza dello Stato li permettano, ed unendovi le comunicazioni opportune. I trat-tati che importassero un onere alle finanze, o variazione di territorio dello Stato, non avranno effetto se non dopo ottenuto l'assenso delle Camere.

Re Vittorio Emanuele III fu il vero regista dell’Intervento, a cominciare dai negoziati  segreti che portarono il 26 aprile 1915 alla firma del “Patto di Londra” insieme alle Potenze dell’Intesa: Inghilterra, Francia e Russia. Le clausole segrete di questo  accordo, che promettevano all’Italia una cospicua espansione territoriale, furono il motivo che spinsero il Sovrano ad abbandonare definitivamente i vecchi alleati, che avevano nutrito sempre sentimenti di ostilità nei confronti dell’Italia e gli diedero la possibilità di realizzare il sogno di completare l’epopea risorgimentale, portando a termine il processo di unificazione nazionale che il suo avo Re Carlo Alberto aveva iniziato varcando il Ticino nel marzo del 1848.
Solo Re Vittorio Emanuele III, il Presidente del Consiglio Salandra ed il nuovo Ministro degli esteri, il Barone Sidney Sonnino, erano a conoscenza del Patto di Londra, di cui erano anche gli artefici.
Le “radiose giornate” che portarono all’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa
furono però non furono facili, e vi furono diversi colpi di scena, che tennero l’ago della bilancia “pro e contro la guerra” sempre in equilibrio.
Mai come in quei frangenti Re Vittorio Emanuele III fu il “deus ex machina” della situazione. Il 3 maggio comunque, l’Italia comunicava a Vienna la rottura del Trattato della Triplice Alleanza, ma il 13 maggio Antonio Salandra si sentì costretto a rassegnare al Re le sue dimissioni in seguito alla crisi extraparlamentare provocata da oltre trecento deputati e cento senatori, che dimostrarono la loro solidarietà con il neutralista Giolitti inviando alla sua abitazione romana una montagna di biglietti da visita e lettere di solidarietà.
Di fronte alle dimissioni del Governo interventista di Salandra, Vittorio Emanuele III, sempre convinto della necessità di entrare in guerra, seppe condurre il gioco con grande abilità.
Dopo brevissime consultazioni, convocò nuovamente il dimissionario Antonio Salandra il 15 maggio, e lo incaricò di presentarsi alle Camere a chiedere la fiducia. Poiché Salandra recandosi a Villa Savoia dal Sovrano aveva detto: “Il nostro ritorno è la guerra”, era ben chiaro, che diventava da quel momento il simbolo stesso della decisione del Governo di entrare in guerra. Il 16 maggio il suo Governo ottenne la fiducia parlamentare con ben 407 voti a favore e solo 74 contrari. Giolitti alla fine aveva ceduto, votando e facendo votare ai suoi estimatori a favore!

Quella del Sovrano fu una decisione sofferta, perché respingendo le dimissioni di Calandra, spianò la strada all’intervento dell’Italia in guerra a fianco delle Potenze dell’Intesa. Del resto, il Re aveva già operato la propria scelta di campo quando aveva sottoscritto il Patto di Londra.
Vittorio Emanuele III, fedele al principio secondo il quale “quando un governo è debole, la Corona deve essere forte” guidò la Nazione in quel particolare momento storico in perfetta sintonia con il suo ruolo di Monarca costituzionale, cioè rispettoso delle prerogative Statutarie.
In quel “maggio radioso” Vittorio Emanuele III portava a termine un progetto che aveva in mente a partire dal 1900, allorché era salito al trono: il progressivo sganciamento dell’Italia dalla Triplice Alleanza a fianco degli Imperi Centrali, e in particolare di quell’Impero Austro-Ungarico che occupava le nostre terre irredente di Trento e Trieste, ed il nostro allineamento a fianco delle Potenze dell’Intesa.

Alberto Conterio

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